Lo sport oltre il divano
Perché lo sport è così appassionante, anche per chi lo pratica soltanto nella versione “da divano”?
Certamente perché regala emozioni forti, attivando neurotrasmettitori che ci danno sensazioni fisiche e psicologiche di benessere; e a tutti piace sentirsi energici, attivi, euforico e coinvolti. Se la nostra squadra vince, il cuore ci batte forte e siamo carichi di adrenalina come fossimo stati in campo pure noi, e infatti in questi casi, ci esprimiamo in prima persona plurale: “siamo forti, abbiamo vinto!”, dimenticando che dal salotto il nostro contributo non ha avuto tutta questa rilevanza, anche se la nostra partecipazione spirituale resta incontestabile (un simpaticissimo anziano che conosco si offende con i ciclisti che non vincono proprio perché vanificano gli sforzi che lui ha sostenuto da casa per tifarli…!!!).
Ma lo sport (compreso quello “su poltrona”) ci piace, anche perché risponde ad alcuni bisogni di cui siamo portatori: il bisogno di appartenenza e il bisogno di identificazione.
Il primo è la spinta a far parte di un gruppo sociale per sentirci protetti e sicuri, ma anche riconosciuti, confermati, legittimati. Dire “noi” è più facile, di fronte a un problema o ad un nemico, che affermare un “io” solitario e maggiormente attaccabile, quindi ci rifugiamo nel branco, stringiamo alleanze, cerchiamo persone che condividano la nostra sorte o la nostra esperienza. Nomi, simboli e rituali aiutano a definire l’appartenenza e la rinforzano, e così badiamo bene a indossare pantofole e sciarpa con i colori della squadra del cuore prima della gara.
Il secondo è il bisogno di costruire e mantenere una risposta alla domanda “chi sono io?”: identificarci con un eroe, una star o un campione ci fa sentire più buoni, più bravi e più belli, ci fa sentire “giusti” e di valore. Un mio collega, quando dimentica qualcosa, si batte la testa e il petto, e scherzando dice: “Me lo devo mettere in testa… Sto facendo come Marcel Jacobs prima delle gare”. Identificarsi col campione lo aiuta a darsi un’immagine vincente anche a fronte di un errore, sostenendo così la propria autostima e la motivazione.
Lo sport ci piace, quindi, perché elettrizza corpo e mente, ma pure perché ci fa sentire parte di qualcosa e perché ci aiuta a cambiare narrazione sugli eventi: i fatti sono fatti e non si possono cambiare (“ho scordato una cosa”), ma il modo in cui ce li raccontiamo fa la differenza (“sono come Jacobs, posso ripartire”).
Non a caso i professionisti della relazione d’aiuto ricorrono talvolta alla metafora sportiva per sostenere chi desidera superare una difficoltà o conseguire un obiettivo; nei percorsi di counselling e di coaching, l’esempio di qualche atleta risulta particolarmente efficace per sostenere la motivazione, e gli insuccessi possono diventare opportunità, i limiti nuove sfide e i problemi occasioni di crescita personale.
A patto, chiaramente, di uscire almeno un po’ dalla zona di confort, e alzarsi dal divano!
dott. Marco Napoletano
(Direttore Scuola di Counselling Situazionale di Conegliano)