Dentro il calore della fredda materia
INTERVISTA A CARMINE BUONOCORE
È così che Carmine Buonocore, conosciuto e apprezzato artista del ferro battuto, crea, come un novello dio Vulcano, opere d’arte di grande valore espressivo. Batte il ferro, riscaldato in forgia con il carbon coke, come si faceva un tempo, solo con martello e scalpello, in base a quel che il cuore suggerisce, e i metalli pesanti assumono una forma leggera, unica e irripetibile, per dire qualcosa di vero, tra terra e cielo.
Originario di Agerola (NA), lo scultore riflette lo spirito della sua terra, aspra e impervia eppure solare e vivace, così da farsi essa stessa fucina creativa, palestra per trasformare ogni resistenza in opportunità.
Ho avuto il piacere d’incontrarlo, in occasione di una sua esposizione di opere a San Vendemiano (TV).
Un mestiere antico, come quello del fabbro, con te diventa espressione artistica… Com’è che ti sei avvicinato al ferro?
Di ritorno dal servizio militare, la ragazza con cui ero fidanzato (che poi è diventata mia moglie) mi ha fatto conoscere la sua famiglia: era una famiglia di fabbri. Con loro ho conosciuto il ferro, come materiale, e ho cominciato a fare delle piccole cose per casa (stavo costruendo, all’epoca, il mio nido familiare). E ho sentito subito una gran passione. Io sono autodidatta. Ho appreso tecniche e stili studiandoli sui libri, ma soprattutto ho provato e provato… Purtroppo in questo mestiere ci sono molte persone gelose, le quali sanno e non trasmettono. Io invece penso – e lo dico sempre quando incontro dei ragazzi – che un’idea ha valore se son gli altri a darle valore; se tu la tieni per te, quell’idea non vale niente. Per questo è importante stare con gli altri, relazionarsi, dare, perché se dai ricevi, se non dai non ricevi niente; e quando dai, non stai regalando, ma stai restituendo: perché un invisibile a te sta dando tanto, e tu non fai altro che restituire quanto hai già ricevuto gratuitamente, non stai facendo niente di eccezionale.
Come nasce l’opera d’arte?
L’opera d’arte nasce da due emisferi: alto (richiamo al cielo) e basso (richiamo alla terra). Con l’emisfero alto si va a caccia delle idee, si sogna, e si riconosce che c’è un invisibile che accende la lampadina dell’idea dentro di te: è un mistero, non è spiegabile. È sciocco dire “l’idea l’ho avuta io”, l’idea è sempre regalata. Non solo nell’arte. Anche se parli con gli scienziati possono dirti che le più grandi scoperte vengono sempre dall’intuito, certo anche dallo studio e dalla ricerca, ma l’idea si accende quando meno te lo aspetti, è un regalo. Poi c’è l’emisfero basso: una volta che tu hai l’idea, la devi realizzare, e per realizzarla ci vuole coraggio e un pizzico di follia (altrimenti ti fermi e dici “ma chi me lo fa fare!”), soprattutto quando si lavora a mano. La manualità costa fatica, però sprigiona meraviglia. La mano dà originalità al pezzo. E qui entra in gioco la casualità, che è la firma della mano di Dio. Non è controllabile il processo creativo: io a volte mi propongo di creare una forma e me ne esce un’altra, meravigliosa. È la vita che preme per venire alla luce, e io sono un semplice strumento. Non possono che meravigliarmi. Come quando mi sveglio ogni mattina, e vedo le cose di nuovo per la prima volta: il sole, mia moglie o mio marito, mio padre, mia madre… che bello!
Allora – mi pare di capire – le cose belle escono quando non sei tu che hai il controllo, ma quando fai spazio a qualcosa di più grande…
Proprio così. Io non sono il realizzatore dell’opera, ma sono un co-creatore. E ti dirò di più: quando io fallisco, realizzo un’opera d’arte. Questo significa che tutti i componenti dell’opera hanno un ruolo: i metalli hanno la loro voce; il fuoco deve convincere il metallo ad ammorbidirsi, perché lo deve plasmare, quindi ha le sue vibrazioni; il martello e lo scalpello hanno i loro suoni. Il rame lo devi portare sugli 800 gradi per convincerlo a spalmarsi, l’acciaio sui 1500 gradi, il ferro sui 1000-1100 gradi… E hai solo 8-10 secondi per lavorarlo, dopodiché non puoi fare più niente. Non puoi neanche riflettere troppo. Non è come il marmo, il ferro: quando hai dato un colpo di martello in quel momento quello resta, è definitivo. Ci sono giorni in cui io lavoro senza produrre niente, ma ho prodotto tanto che tu non immagini nemmeno; e ci sono giorni in cui produco tanto e non ho prodotto niente. Questo è il bello dell’arte: è un mistero nel mistero.
Inoltre ci sono la mia cultura, le mie origini, le mie tradizioni… C’è un detto latino quidquid recipitur ad modum recipientis recipitu: “tutto ciò che si riceve, è ricevuto secondo il modo di chi riceve”, e il modo di chi riceve è dato dalla sua natura, dalla sua storia. Per questo l’opera d’arte comunica, entra in relazione… è inutile spiegarla: l’opera si presenta e parla in modo del tutto personale; se la spieghi, diventa banale.
Quanto c’è della sua terra in quello che fa?
Prima di stabilirmi in Costiera Amalfitana, ho vissuto alcuni anni a Napoli. Dai napoletani ho preso la fantasia: il napoletano la mattina si deve armare di fantasia per portare a casa qualcosa, perché – diciamocelo – la realtà è povera. Dagli amalfitani ho preso l’attitudine al confronto: Amalfi è stata la prima repubblica marinara e il fatto di commerciare li ha portati a confrontarsi, quindi anche a crescere, vedendo realtà diverse dalla propria e integrandole. Poi ho vissuto alcuni anni a Conegliano (dove ho aperto il ristorante-pizzeria “La Rosa dei Venti”, che ha in gestione mio figlio) e mi sono fatto questa idea dei veneti: quando non ti conoscono si mantengono a distanza, sono un po’ diffidenti, è vero, ma quando capiscono chi sei si aprono e diventano espansivi; potremmo chiamarla prudenza. Non che al Sud non ci sia una certa diffidenza verso l’estraneo, è solo meno evidente, ma c’è, ed è un fatto naturale, umano. Per superarlo, bisogna entrare in un’ottica di appartenenza al mondo. In una delle ultime prove di forgiatura che ho fatto alla Biennale di Venezia mi sono presentato come “extracomunitario”. Ovviamente era una provocazione. Per dire che l’appartenenza è bella, ma non deve diventare motivo di divisione.
Che arte è l’arte del metallo?
Io la definisco la terza arte, perché povera. Gli è stata tolta la parola dall’arte affarista. Quindi muta arte. La muta arte deve creare caos nelle persone, vuoto, abisso. Quando guardi un’opera d’arte – o la vita, che è la stessa cosa – e tu sei pieno di te, del tuo sapere, della tua intelligenza, dei tuoi pregiudizi, del tuo orgoglio… non può entrarci niente. Ecco che la muta arte cerca di creare un vuoto, e l’opera entra, diventa una scintilla per accendere quel vuoto. Accendere il vuoto vuol dire farti ragionare, pensare, riflettere, riconoscere la forma di quel vuoto. E quindi alla fine quest’arte, queste opere danno valore a te, non a loro. Tu sei il valore di un’opera d’arte. L’arte entra e esce da te, secondo la tua forma. Ed è stata interpretata dalla tua libertà che ha visto, ha sentito, ha oltrepassato, addirittura ha visto di più di quel che l’opera voleva dire: l’invisibile. Per questo l’arte deve essere libera.
Toro, Cristo e Lumaca sono i soggetti da te più rappresentati. Cosa ti dicono?
C’è una forza, nel Toro, che mi affascina, qualcosa di magnetico; non a caso è stato oggetto di culto nell’antichità (Vitello d’Oro) e ricorrente rappresentazione mitologica (Minotauro).
Quanto a Cristo, la mia opera comunica il Suo messaggio. Nel Crocifisso, in particolare, vedo ciò che non vedo e non vedo ciò che vedo. Riconosco, dunque, la mia piccolezza. È come quando tu rinunci a qualcosa per qualcun altro. Provi una gioia che non puoi descrivere. L’uomo non ha inventato ancora le parole per descrivere quella gioia. È qualcosa di così misterioso, profondo, meraviglioso. Non ci sono parole. Ed è una gioia che passa per la sofferenza. Il mondo è fatto dal bene e dal male: sono due essenzialità. Se non ci fosse questa polarità, non ci sarebbe libertà.
La Lumaca contiene il segreto della felicità: la lentezza, che ti porta alla consapevolezza, perciò ti ricordi di vivere, quindi esistere. Ex-sistere, etimologicamente, è invito a uscire, a incontrare la realtà, ad andare verso gli altri, e così cercare di dare un senso alla vita.
Perché lo fai? Qual è lo scopo della tua arte?
Lo faccio per amore, lo faccio per questo. Regalo e restituisco.
La semplicità serena con cui risponde commuove. E mi vien da pensare che siamo un po’ come i metalli duri, noi: arroccati nell’ego, ci difendiamo in mille modi – quanta resistenza! Eppure possiamo essere plasmati da un fuoco invisibile, che soffia dove, come, quando vuole. C’è un mistero, che non ci è dato di afferrare. Ci è chiesto semplicemente di vivere. Accogliere, restituire.
Ringrazio Carmine Buonocore, perché l’arte, quando è vera, tocca la vita. Senz’altra pretesa. Per questo non troverete in questo articolo una foto dell’artista, che nulla antepone alle sue opere, neanche se stesso: semplicemente si pone a servizio della vita con mano d’artista.