La forma della felicità
Lo scorso anno una galleria di Palermo ha allestito una mostra dal titolo “Giorni felici?” che riprendeva in toto il nome una pièce di Beckett nella quale una donna, intrappolata in un cumulo di terra che le arriva fino al busto immagina che i suoi giorni siano ancora “divini” per usare esattamente le sue parole. Attraverso una serie di installazioni di artisti contemporanei si avventurava poi nella ricerca di forme di felicità.
Questo mi offre lo spunto per una piccola riflessione su questo tema che è stato celebrato giusto il mese scorso con una Giornata Mondiale e su quanto sia difficile da catturare e da tradurre sia a parole sia per immagini. In un contesto politico e sociale che vira sempre di più al tragico occorre recuperare, secondo me, anche questa dimensione lieta e leggera dell’esistenza.
In fondo si tratta di uno stato d’animo tra i più inafferrabili e che non è necessariamente legato a qualcuno o a qualcosa. Vi è mai capitato di provare quella sensazione di benessere in cui ci si sente a proprio agio con se stessi e con quanto ci circonda? Ecco, quella è una manifestazione della felicità e dovremmo stare più attenti a riconoscerla, per breve o lunga che sia e cercare di tenerla ben viva nella memoria, riscoprendo anche il senso della gratitudine specie nei momenti della vita che felici non sono.
Se la felicità avesse una forma, quale sarebbe? Una prima risposta potrebbe essere quella di un colore. E qui si aprirebbe un lungo dibattito dacché si tratta di una scelta molto soggettiva. Per alcuni sarebbe un colore caldo e vivace, per altri fluorescente, per alcuni in trasparenza, per altri pieno. Rifacendosi al mondo dell’arte potrebbe essere un colore a olio o ad acquerello, un pastello o a una cera. È un po’ come quando eravamo bambini e disegnavamo linee e forme senza senso ricavandone un senso di gioia e benessere. Quella, senza la mediazione dell’intelletto era la nostra più autentica rappresentazione della felicità. Oggi ritroviamo questa pratica nei tanti percorsi di arte terapia dove siamo chiamati a dare forma e colore ai nostri stati d’animo.
Felicità può essere un luogo nel quale ci sentiamo bene e che ci evoca bei ricordi. E allora avrebbe la forma della nostra casa e della nostra stanza preferita oppure di un luogo, paese o città con le persone che la abitano e perché no, anche di un paesaggio. Di recente la città di Novara ha ospitato una mostra che si intitolava appunto Paesaggi e svelava come, dalla fine dell’Ottocento in poi, è mutata la sensibilità artistica difronte a questo soggetto. In effetti, c’erano degli scorci che evocavano se non direttamente un senso di felicità quantomeno la serenità che di solito le si accompagna.
Se la felicità fosse un suono, a cosa potrebbe somigliare? A uno scampanellio, a un delicato tintinnio? Se sì, di quale strumento? A tasti, a fiato, a corda, a percussione? E allora i ritmi spesso indiavolati di popoli ancora primitivi sono il suono primigenio della felicità? Quella che ancora non conosceva la mediazione della parola? Pensiamo poi al canto. In fondo la voce è lo strumento che meglio esprime i nostri stati d’animo e dunque si presta anche ad esprimere la felicità, che si tratti di un canto religioso che inneggia a gioia e speranza o di una canzone di musica leggera. Non a caso questo nome porta l’omonimo testo di Albano e Romina che ripete la parola felicità così tante volte che, alla fine, si ha quasi la sensazione di provarla.
Se poi pensiamo al nostro quotidiano la felicità ha la forma dei volti delle persone amate o dell’animale domestico che allieta e migliora noi e le nostre vite. Un tramonto, un cielo stellato sono altrettanti momenti di felicità. Occorre imparare a rieducare lo sguardo per coglierla nelle sue tante manifestazioni.