Ferrate: metafora di vita
La montagna, si sa, è una facile metafora della vita. Si sente molta verità, ma anche, a volte, molta retorica in frasi come: quanto più fai fatica tanto più varrà la pena, le salite si alternano alle discese…
Quando, tuttavia, ci si confronta realmente con i propri limiti nella Natura, scatta qualcosa in più di semplici, per quanto immediatamente comprensibili, concetti di “fatica” o “salita”.
Un esempio, trasversale a più preparazioni, età ed esperienze, lo offre il mondo delle vie ferrate.
Chiamate così perché si tratta di percorsi dotati di ancoraggi di acciaio (cavi, chiodi e scalette) inseriti nelle pareti rocciose per facilitare la salita e favorire la messa in sicurezza degli escursionisti, rappresentano un’evoluzione della camminata canonica e permettono un approccio più avventuroso (e più rischioso, certamente) rivolto a diversi livelli di preparazione.
Proprio quest’ultima rappresenta la vera sfida per l’escursionista. C’è infatti tutta una serie di azioni prima di partire, da valutare:
- il meteo, innanzitutto, per non esporsi a rischi di natura differente e prevedibili;
- l’attrezzatura, perché da questa dipende la nostra sicurezza, non deve essere usurata, dobbiamo saperla indossare, bloccare e riaprire all’occorrenza;
- l’itinerario, per studiare certamente il percorso ma anche per comprendere la distribuzione dell’impegno e l’allenamento che richiede;
- la condizione fisica e mentale, perché approcciarsi a una ferrata è innanzitutto un’opera di concentrazione e lucidità cerebrale, oltre a richiedere una consapevolezza atletica.
Quando ci si trova in ferrata, una frase come “siamo solo noi davanti alla bellezza Natura” è un pensiero romantico destinato ai tempi di riposo, quando si pensa nostalgici alle vette. La Natura, in ferrata, è massiccia, imperante, da millenni. Allo stesso tempo, ci mette alla prova a ogni centimetro di avanzamento. Siamo davanti a noi stessi nel momento in cui ci troviamo a dover vagliare ogni singolo sperone di roccia con le estremità delle dita, con scarpette o scarponi che, di norma, sono caratterizzate da una certa rigidità di suola proprio per favorire il sostegno. Ogni porzione di roccia può essere un appiglio, ogni ramo una potenziale salvezza (o meno, va ben ponderato), a ogni passo bisogna ri-calibrare il proprio peso, la propria forza e la propria capacità di avanzare. Nel mentre, i moschettoni: necessari, piccoli e potenti alleati da conoscere nel meccanismo di apertura e chiusura, in quel suono metallico di aggancio e sgancio che in certi tratti diventa un mantra, un rituale, che accompagna la sensazione di sicurezza, che non deve mai fare a meno, tuttavia, della presa della mano.
Certo, nei momenti di sosta, magari a strapiombo o in un’ansa in cui c’è addirittura lo spazio per prendere la borraccia, bere e salutare qualche escursionista che ne approfitta per superarci, guardare il panorama è un toccasana. Allora, nel prendere il respiro, ci si accorge di un grande insegnamento che, quello sì, deriva dal far fatica in montagna: il misurarsi con noi stessi dovrebbe essere un’azione quotidiana. Nella quotidiana frenesia che ci accompagna, invece, tra lavoro, famiglia, società, attraverso i giorni, talvolta i mesi, si vive spesso quasi in uno stato di incoscienza, dove il rituale è quello, ben più meccanico e freddo del suono dei moschettoni, delle performance astratte e non quelle di un sano allenamento valoriale che è tutto ciò che, veramente, mantenendo la metafora, ci permette di guardare a orizzonti panoramici.
Ferrata Olivieri, salita a Punta Anna nelle Tofane:

Ferrata della Memoria, nella gola del Vajont:
