A hidden life – un film da guardare
La storia di fede e di amore del contadino austriaco martire del nazismo, Franz Jägerstätter, raccontata da Terrence Malick in un capolavoro di straordinaria forza cinematografica e spirituale.
In questi giorni segnati dall’esigenza di ricordare, segnalo un film a chi voglia fare lo sforzo di andarselo a cercare: La vita nascosta – hidden life (2019); un film che merita, per più di un motivo.
Primo: il regista è Terrence Malick. Un uomo di pensiero. Filosofo. E il suo è un cinema filosofico. Dietro la macchina da presa, il regista osserva attentamente la realtà, per cogliere di essa ciò che immediatamente non si vede. Altezza e profondità. Più che la trama, conta il fotogramma: frammento a se stante con un senso e una ragion d’essere autonomi, sapientemente orientato a restituire qualcosa dell’uomo-nel- mondo. In uno spazio dilatato e in un tempo rallentato, quasi sospeso, contano i suoni, le voci, i gesti, le pose, i contatti. E non contano i numeri per Terrence Malick, che dagli anni Settanta ad oggi ha girato appena undici film. Del resto, si capisce, in gioco c’è la sostanza, e ciò che la anima, per aprire varchi e far entrare Luce.
Secondo: una domanda cruciale. Tutti i film di Malick muovono da una domanda, esistenziale, dunque cruciale. Può l’atto di un uomo qualunque influire sul destino del mondo? Questa è la domanda che porta il regista americano a percorrere una strada fuori mano con l’inconfondibile cifra stilistica del suono e dell’immagine e dei tempi lunghi, perché le storie vere sono senza tempo. Il regista indugia dentro i risvolti di una storia, che ha molto da dire, a chi la sa ben guardare. Per cogliere l’invisibile: la vita nascosta.
Terzo: A hidden life è la storia vera di Franz Jägerstätter (1907-1943), umile contadino austriaco che durante l’ascesa trionfante del nazismo offre una testimonianza di fede inflessibile quanto apparentemente inutile rifiutandosi di cedere all’obbligo di giurare fedeltà al Führer e di combattere per lui. Poteva sembrare l’ostinazione di un perdente, destinata a sbiadire, e invece siamo ancora qui a chiederci cosa ci dice. E ritorna la domanda: Cosa tiene viva una vita?
Quarto: una questione di coscienza s’impone: fedeltà al regime o fedeltà ai propri valori? Il rifiuto netto a biascicare quella che avrebbe potuto anche esser considerata (per molti lo è stata!) una formuletta retorica e vuota, costa a Franz Jägerstätter l’emarginazione sociale, e poi la separazione forzata dalla famiglia, fino all’arresto, alla tortura e alla morte. Intanto dal campanile del villaggio i rintocchi della campane che rimbalzano sulle pareti dei monti impongono sulla scena un’altra voce, che pare dica: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. E pungola la coscienza di chi la sa ascoltare.
Quinto: la fede, l’amore. Franz Jägerstätter, che è stato dichiarato beato da papa Benedetto XVI nel 2007, non è un eroe, non è un super-uomo: è un uomo semplice, genuino, che vive un dramma. La guerra è dentro di lui: tra ciò che la coscienza sussurra e tutto ciò che gli gravita attorno. E sceglie da che parte stare, con coerenza, fino in fondo. Perché il male va sempre rifiutato, senza soluzione di compromesso. Tutta la sua vita parla il linguaggio della fede, e questa è la sua forza. Persino il suo umanissimo ma sconfinato amore per la moglie è radicato nella fede. Anzi, forse proprio nel matrimonio la fede del giovane contadino incontra un sensibile approfondimento. L’epistolario con la sua “Fani” – che dapprima subisce la scelta del marito per poi capire che si deve fidare di ciò che egli vede con tanta chiarezza – è di un’intensità mistica sorprendente: due contadini umilissimi, innamorati si scambiano frasi di bruciante vibrazione umana e divina insieme, arrivando a toccare il mistero della vita che fa sì che le loro anime si sentano strette l’una all’altra a prescindere dalle circostanze, per sempre.
Sesto: non si esce dal film come prima. È una cifra registica di Malick: incantare o assopire, ma mai lasciare indifferenti. La visione di questo film, per la sua capacità di penetrare a fuoco vivo l’anima, è consigliata a chi ama sentirsi chiamato in causa e interrogato da una storia autentica, che ti prende per mano, ti commuove, e ti porta a diretto contatto col mistero, insondabile.
Settimo: una luce per i nostri giorni. I grandi capolavori si guardano fino alla fine, fino ai titoli di coda. Quand’ecco appare la chiave di accesso al mistero nelle parole di George Eliot: «Il bene a venire del mondo dipende in parte da azioni di portata non storica; e se le cose per voi e per me non vanno così male come sarebbe stato possibile lo dobbiamo in parte a tutti quelli che vissero con fede una vita nascosta, e riposano in tombe che nessuno visita».
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