F.F.S.D.
La buona notizia è che c'è una cura!
La nostra storia procede per etichette, che ci accompagnano fin dalla nascita, che ci definiscono e ci incasellano: o siamo maschi o siamo femmine; o siamo bambini o siamo adolescenti o siamo adulti o siamo vecchi; o siamo sposati o siamo nubili e celibi, o siamo single o siamo coppia. O apparteniamo a un gruppo o a un altro; o siamo occupati o siamo disoccupati, o siamo ricchi o siamo poveri. O siamo sani o siamo ammalati, o siamo abili o siamo disabili, e potremmo continuare all’infinito per un elenco senza fine. O facciamo parte di quelli che vanno in vacanza o siamo tra quanti non ci vanno mai, i definiti sfortunati, anche se magari scegliamo di vivere la vacanza come realtà quotidiana.
A che serve l’etichettare? A chi serve? È magari il bisogno di sapere chi siamo noi? È forse urgenza di portare fuori da noi la diversità, quella dissomiglianza che tanto ci spaventa perché ci fa scoprire diversi, rompe gli schemi che ci tranquillizzano, crea l’imprevisto che ci interroga, ci scomoda nel cercare risposte che non possediamo?
Ho l’impressione che la diversità, o meglio la sua paura, possa essere definita la malattia del secolo.
Siamo incapaci di contenerla, sfugge a ogni controllo, è esplosa in modo esponenziale, ci trova impreparati a gestirla.
Solo nella scuola si moltiplicano le sigle, a volte per dire qual è la sua proposta (ASL, PEP/PDP, POF o PTOF, PON, PSP), altre quali ausili per un migliore funzionamento (RAV, CAA, DF, PDF, GAV o NIV, PEI).
Ci sono poi sigle (ADHD, DDAI, DOP, DSA, DVA, BES, da ND) che definiscono ragazzi e ragazze in funzione di percorsi in parte personalizzati, ma che, di fatto, nella scuola li differenziano da alunni e alunne che definisco “a normale diversità”, perché, osiamo dirlo: la normalità è fatta di 1000 sfumature di diversità!
Il problema sta proprio qui: quando capiremo che la diversità è la norma della vita? Che senza di essa la vita non è tale, perché è la diversità che crea la possibilità di dialogo generativo della relazione che è la vita stessa?
Sì è vero, c’è diversità e diversità, ma perché allora non parliamo di facce diverse di una diversità o meglio di talenti, di potenzialità, che costituiscono gli apporti diversi che le persone possono dare?
In tema di diversità, ho anch’io un’etichetta da proporre, che raccoglie miliardi e più di persone: FFSD.
Si tratta di uno spettro che presenta differenti manifestazioni: dall’incapacità di pensare a quella di comunicare, da una disturbata relazione con sé, all’incapacità di relazionarsi con gli altri, al non provare interesse per l’altro, sia esso persona o mondo.
La non capacità di pensare si manifesta con la rinuncia a un pensiero personale, anche critico, e con l’assunzione di un pensiero facilmente reperibile sul mercato, con conseguenti azioni che non sono frutto di una scelta, ma riproduzione di comandi altrui, in parte evidenti.
L’incapacità di comunicare è la difficoltà a riconoscersi portatori di un pensiero originale, di un valore, di un senso, di una ricchezza che sono per sé e per gli altri.
Il disturbo nella relazione con sé ha radici nell’assimilazione all’altro/altra, e quindi nel non percepirsi come realtà differente, autonoma. È un’identità che fatica a emergere.
L’incapacità di relazione con l’altro/altra, che ha le medesime radici, è pure difficoltà a sottrarsi a un rapporto di sudditanza, di sfruttamento, di annullamento o di dominio.
Il manifesto non interesse per il mondo, inteso anche come natura, ha origine nel non riconoscere l’esistenza tra le parti di un’interdipendenza e reciprocità.
Identificativo di questa patologia è una solitudine esistenziale cui è condannata la persona, se l’intervento non è precoce, anzi, precedente il concepimento e poi giorno, dopo giorno.
Tutte le attività in isolamento sono nocive, mentre utili sono quelle che pongono in relazione, che mettono insieme, nell’ascolto, nella natura, che favoriscono poi l’espressione naturale con vari linguaggi.
Qualcuno si chiederà le cause di questo disturbo?! È presto detto: è la madre!
Eh, sì, proprio lei, ma solo perché il suo nome è declinato al femminile nella nostra cultura, perché in realtà il termine deriva dal latino “socius”, declinato pertanto al maschile.
Avrete capito che non sto parlando di una madre-donna, ma della Società, la nostra, una madre bizzarra, che ha pochissimo di femminile, che si rifà piuttosto a una cultura maschile, e oserei dire ancor oggi con un’impronta di tipo patriarcale.
Il risultato è quotidianamente sotto i nostri occhi, è tra noi, è dentro di noi. E non parlo di ragazzi e ragazze, ma di noi adulti, i Figli Fragili di una Società Decadente (FFSD): siamo noi gli insicuri, i geneticamente modificati, gli omologati, i volatili nell’impegnarsi, i mancanti di un pensiero originale, ed è certo che non possiamo pretendere da loro, ciò che noi non siamo.
Urge una terapia, serve l’UFAM, un medicinale omeopatico di antica produzione, per il quale è prevista la distribuzione gratuita, senza ricetta.
UFAM sta per Uscire, Frequentare, Ascoltare, Meditare.
Uscire dalle stanze, dalle case, dalle città, recuperare uno spazio naturale più vicino al nostro essere naturali. Lasciare situazioni e relazioni che come mura ci proteggono, ma rischiano di spegnere in noi la vita. Camminare, correre, viaggiare, per incontrare!
Frequentare luoghi e persone che ci fanno leggeri, il pensiero rende lieto il nostro andare, e siamo quasi delicatamente sospinti ad andare oltre il già noto. Leggere, studiare, ritornare sul già noto, vivere esperienze e nuove conoscenze.
Ascoltare le voci della natura e degli altri che ci raccontano storie di altre vite; le voci che in noi raccontano storie che ci precedono e annunciano quelle che verranno, un’unica storia di cui noi siamo parte!
Meditare, cioè riflettere su quanto si è ascoltato, si è visto, ma soprattutto su quanto si è vissuto. È qui che si attinge per un cambiamento, per una crescita continua.
È urgente fermarsi, fermarsi, fermarsi! Per rileggere, rivedere, rivisitare, e attingere energia nuova… e poi ripartire!