Riconoscere
Riconoscere ha significati diversi, che poi alla fine convergono.
Innanzi tutto ci viene in mente che “riconoscere è conoscere nuovamente”, quasi riscoprire come fosse una novità, quella persona, quel luogo. E subito gli accostiamo la valenza del “riconoscere come dare un riconoscimento”.
È cosa fondamentale ad esempio, nell’educazione delle nuove generazioni, (ma non lo è forse anche per noi adulti?) riconoscere, o, come ho scoperto grazie a illuminati pedagogisti, “dare valore”, che in termini scolastici acquista il nome di valutare. In questo caso dare valore è sinonimo di riconoscere, cioè riconoscere qualche cosa che l’altro/a ha, sia in termini di difficoltà, sia in termini di possibilità o di competenze.
Riconoscere dà la possibilità di una ripartenza, perché praticamente sia nel riconoscere = conoscere nuovamente, sia nel riconoscere qualcosa a qualcuno, si attiva energia nuova, generativa di nuove possibilità, un percorso che si apre davanti.
Quando incontriamo una persona che ci riconosce, o che noi riconosciamo, di solito richiama un piacere vissuto che ci motiva anche a rivitalizzare il rapporto con quella persona. Ugualmente accade quando riconosciamo qualcosa a noi stessi, ci dà energia nuova per ripartire, per andare avanti, per procedere. E questo succede anche quando si è riconosciuti dell’altro/a. Soprattutto le persone che hanno difficoltà nell’avere autostima di sè, a volte perché non si conoscono, o perché non si sentono valorizzati, o essi stessi non si riconoscono valore, l’essere riconosciuti determina proprio una ripartenza.
C’era una volta una gara fra ranocchi il cui obiettivo era arrivare in cima a una gran torre. Richiamata dall’ insolito spettacolo, si radunò molta gente per vedere e fare il tifo. Cominciò la gara, ma in realtà, la gente probabilmente non credeva possibile che i ranocchi raggiungessero la cima, e si sentivano frasi del tipo: “Ma che pena… Non ce la faranno mai!” E così alcuni ranocchi, sentendo questi commenti, cominciarono a desistere, sfiduciati, tranne uno, che continuava a cercare di raggiungere la cima. Ma la gente continuava:
“… Che pena!!! Non ce la faranno mai!…”
Sempre più ranocchi si diedero per vinti tranne il solito ranocchio, testardo, che continuava ad insistere. Alla fine, tutti desistettero tranne quel ranocchio che, solo e con grande sforzo, raggiunse alla fine, la cima.
Sbalorditi e un po’ invidiosi gli altri ranocchi vollero sapere come avesse fatto e uno di questi, più curioso degli altri, si avvicinò per chiedergli come avesse fatto a concludere quella difficile prova. Non ottenne risposta: il ranocchio vincitore… era sordo! [1]
Parafrasando la favola della rana, si potrebbe dire che il riconoscimento ci toglie dalla sordità. Se essere nella sordità ci fa isolati dal mondo, ci estranea dal clima e dall’ambiente di relazioni, il riconoscimento ci toglie dalla sordità che rende non “visti” per ciò che siamo, ma per la nostra “mancanza”, ma soprattutto non ascoltati in quanto spesso chi è sordo è anche muto. Quando manca la capacità di parlare, di pronunciare parole, che sta alla base della comunicazione verbale, si utilizzano altre forme comunicative, e per fortuna ora il linguaggio dei segni facilita il superamento del limite alla comunicazione che accompagna a volte fin dalla nascita.
Ecco “riconoscere ci fa uscire da questo mutismo”, da quest’ inesistenza, e ci attiva nell’assumere le nostre capacità per metterle in gioco.
È l’esercizio che non dovrebbe mancare nella scuola, quello dell’autovalutazione, cioè dell’auto riconoscimento. E mi riconosco sia nelle potenzialità, sia nelle potenzialità agite che sono le competenze, e prendo coscienza del loro possibile sviluppo prossimale, che mi rende protagonista del mio personale percorso di crescita. Una responsabilità che assumo con me, e con la società.
[1] Metafora della rana sorda https://psicotime.it/metafora-rana-sorda-potere-parole-negative/