Il principe canarino: le ali dell’amore
Nelle storie di famiglia mi si parlava spesso di un poeta, che abitava in un paese perduto in mezzo all’acque delle risaie. Della sua storia sono sopravvissuti pochi brandelli: le registrazioni dei canti delle mondine, le descrizioni dei temporali sulla città, qualche verso e…l’amore per i canarini. Del canto di quegli strani uccelli l’aria si riempiva, accompagnando del loro cinguettio i giorni della mietitura, diventando come un paesaggio sonoro inconscio, che colorava di un lampo giallo la fatica dei pomeriggi assolati. Si dice addirittura che nei lunghi giorni nebbia solo il canto gioioso di quegli uccelli permettesse alle donne nei campi di ritrovare la via verso casa e di non perdersi in quell’indistinta pianura.
Non mi stupisce allora di trovare nella raccolta delle fiabe italiane di Calvino, il racconto del Principe-canarino. Sarà venuto forse da quelle terre il “principe canarino”? Quel che è certo, è che questa fiaba torinese, traduce la narrazione raccolta da Giuseppe Rua nel 1887. In originale la fiaba, era narrata in dialetto, “l’canarin” e la trascrizione dialettale è ancora consultabile sul sesto volume della rivista di fine Ottocento “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”. Ma cosa legherà mai la terra piemontese ai canarini? (A i era un re ch’a l’avìa ‘na fia…c’era un re che aveva un figlia).
Ecco una sintesi del racconto:
La figlia di un re, perseguitata dalla matrigna, è rinchiusa in un remoto castello in un bosco e affidata alla custodia di alcune dame. Ma l’amore supera tutte le barriere, un principe tutto vestito di giallo, va a caccia in quel bosco e si innamora, ricambiato, della giovane che sta finestra. Una masca, che nella tradizione piemontese corrisponde alla strega o talvolta ad una donna sapiente, dona alla fanciulla un libro che ha il potere, se sfogliato in un verso, di trasformare il principe in canarino e, se sfogliato nell’altro verso, di farlo tornare uomo. Il principe e la principessa possono in questo modo abbattere le barriere e le distanze, finché un giorno, la matrigna gelosa pone degli spilloni sul davanzale dove “‘l canarin” era solito planare. Ferito a morte, si allontana da quell’amore crudele, ma la fanciulla calandosi giù dalla torre, raggiunge e cura il bel giovane. Poi si sa, come nelle fiabe…”le nosse a son finie con gran feste e ij spos a son passasse ‘l temp de soa vita ansema” – “le nozze finirono con grandi feste e gli sposi passarono tutto il tempo della loro vita assieme”.
Questa fiaba torinese, con il suo ritmo da ballata, presenta a detta degli studiosi, un motivo antico, che la colloca molto indietro nel tempo, ben prima che il Piemonte ricevesse il dono di un re. Essa sembra infatti essere in linea con le tradizioni poetiche medievali come i Lais di Maria di Francia. La presenza di un principe contraddistinto da un colore è un espediente che troviamo in molte altre fiabe, ad esempio in alcuni racconti napoletani incentrati attorno al principe Verdeprato.
Il giallo dei canarini, rimanda senza dubbio alla gioia, alla leggerezza, essi sono una promessa di felicità e di fedeltà. Il canarino si dice disponibile a farsi imprigionare è qui sta tutta la sua seduzione. È per questo che la fiaba, in cui è in gioco la questione della libertà, ci dice che il canarino si lascia addomesticare docilmente dalla ragazza. Purtroppo la dolcezza del canarino, la sua disponibilità a condividere tempo e canto si scontra con la violenza della matrigna. Il canarino rappresenta la docilità e la bellezza. È vero, è facilissimo addomesticare dei canarini, ma come ci insegna la fiaba bisogna uscire dai noi stessi per incontrare la loro regalità, dobbiamo liberarci dalle nostre gabbie, per accogliere colui, che nella sua piccolezza si dice disponibile a lasciarsi addomesticare dall’amore.
A me il gioco sottile tra amore e docilità fa venire in mente queste parole della Bibbia:
Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dalla terra d’Egitto, nello stesso giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai. Levate le tende da Refidìm, giunsero al deserto del Sinai, dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte. Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a me. Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Queste parole dirai agli Israeliti”. Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore. Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!” (Esodo 19,1-8).
La fiaba, letta alla luce della Bibbia, ci insegna a valorizzare il dono dell’obbedienza, a riscoprire la dolcezza e la discrezione, ad amare la tenera docilità delle creature, che si affacciano alla finestra delle nostre prigioni.