Messer Bello Sconosciuto
Quando venne chiesto il nome al Bello Sconosciuto quegli rispose: “Bel Figlio, mi chiamò mia madre, e non so se ho un padre”
(La ricerca del Bello Sconosciuto, romanzo arturiano del XIII secolo)
Un nome crea attorno alla persona come un alone luminoso. È ben diverso chiamarsi Leone rispetto a Felice, diverso è il modo in cui veniamo percepiti, diverso è il modo in cui costruiamo la nostra identità, il modo in cui ci distinguiamo dagli altri, il modo in cui definiamo la nostra personalità. Un nome ci rivela al mondo ed è una delle chiavi di lettura attraverso le quali il mondo ci percepisce. È importantissimo per ciascuno di noi, un modo per considerarci unici, un modo per tessere riferimenti a se stessi e agli altri.
Stranissima allora la vicenda del Bello Sconosciuto (Le Bel Inconnu o The Fair Unknown), che è presentato come cil qui a perdu son nom (“colui che ha perduto il suo nome”), uno dei personaggi della leggenda arturiana la cui ricerca (quête) non è per conquistare nuovi territori, ma piuttosto per provare a recuperare qualcosa di intimo e di personale che si è smarrito.
Veniamo alla storia, perché può darci qualche indicazione per capire quello che è avvenuto. Intanto sappiamo che l’anonimo cavaliere è figlio di Galvano, uno dei principali personaggi della ricerca arturiana e della fata Balchemal che Galvano aveva incontrato in un bosco, ma che trattiene il figlio presso di sé nascondendone il nome, l’origine e la stirpe. Questo giovane diviene finalmente cavaliere alla corte di re Artù sotto il misterioso nome di Messer Bello Sconosciuto e allora la sua missione trascorre tra due storie parallele e paradossalmente identiche: salvare la Bionda Esmerea da una città assediata e liberare la dama, detta la Pulzella dalle Bianche Mani, una fata come sua madre, da un matrimonio indesiderato con Malgieri il Grigio.
Gli psicologi che si sono sporti su questo testo fanno osservare come le due donne siano in realtà la stessa persona, una reale e l’altra fantasmata, notando che la donna fantasmata sia anch’essa priva di nome, chiamata semplicemente con l’epiteto Bianche Mani. L’ipotesi che avanzano poi è che Malgieri il Grigio sia l’alterego del Bello Sconosciuto. La storia si presenta allora come un vero e proprio grattacapo psicologico, costruito su piani molto complessi: da un lato infatti il rapporto amoroso è usato come luogo per ritrovare il legame perduto con il padre, ma dall’altro vi è anche un vertiginoso gioco di rimandi tra la figura dell’amante e quella materna. Per rendere ancora più avvincente l’avventura dell’identità del Bello Sconosciuto, la storia sottende anche una costruzione identitaria per tentativi, generando così la ricerca e l’avventura. Addirittura il nome della fata la Dama dalle Bianche Mani (Blanches Mains) ha una chiara assonanza con quello della madre Balchemal. Il romanzo si conclude con il ritrovamento del nome, donato ovviamente dal padre Galvano, ma – un ultimo colpo di scena – non siamo sicuri che colui che riceve il nome sia davvero lo stesso personaggio che ha iniziato la ricerca.
Anche nella Bibbia è il padre colui che è chiamato ad attribuire il nome al figlio, ed è per esempio su questo tema che l’evangelista Matteo sintetizza la speciale missione di Giuseppe, il falegname, quando l’angelo gli rivela che al bambino che sta per nascere da Maria “tu darai nome Gesù”. È il padre colui che è deve nominare, far riconoscere, rendere presente a sé e alle proprie radici, ma un’ultima cosa interroga nel testo: questo descriversi dell’anonimo cavaliere come Malgieri il Grigio. Si tratta del tentativo di arricchire la propria personalità bloccata nell’unico carattere della bellezza con altre caratteristiche, con un nome fittizio e immaginario, ma soprattutto si tratta di immaginare un padre, grigio perché più anziano, cattivo perché mi so abbandonato, per scoprire a poco a poco, attraverso tentativi sbagliati, che in realtà Galvano era al fianco del Bello Sconosciuto, si trovavano assieme e affiancati, cavalieri dello stesso re e seduti alla medesima tavola.